LA POSTA IN GIOCO IL 9 GIUGNO
"Il lupo perde il pelo, ma non il vizio". È un proverbio popolare che calza a pennello con i panni elettorali indossati in queste settimane da Giorgia Meloni.
Assunto l'incarico di capo del governo la Presidente del Consiglio si era data una postura "istituzionale" cercando così di superare le molte diffidenze suscitate in Italia e in Europa. E in ansia di legittimazione aveva soprattutto messo la sordina alle posizioni euroscettiche - e in alcuni casi proprio antieuropee - sue e del suo partito.
E ne è stata manifestazione esplicita la ricerca affannosa di un rapporto politico e personale con la Presidente della Commissione europea Ursula Van der Leyen. La quale, non sicura della riconferma al vertice dell'Unione, non si è ritratta offrendo alla Meloni un accreditamento europeo.
Ma mano a mano che ci si avvicina alla scadenza elettorale del 9 giugno, dismessi i panni "responsabili", la leader di Fratelli d'Italia è tornata ai toni aggressivi del suo vero profilo, rilanciando alleanza con le destre europee, da Orban a Vox, dal PIS polacco alla Le Pen (con cui tuttavia corre una sotterranea competizione per la leadership della destra europea). Così Giorgia Meloni è tornata all'antico, rispolverando l'Europa delle nazioni, le tradizioni religiose, il suprematismo bianco, la demonizzazione di Bruxelles e l'intero catalogo della destra. Nel tentativo di rendere credibile questo ripiegamento nazionalistico, è ricorsa a una formula - "l'Europa si occupi di poche cose e a tutto il resto pensino gli Stati" - apparentemente di buon senso. Apparentemente, perché in realtà nel mondo globale nel mondo nessun Paese europeo ha sufficiente dimensione e forza per affrontare da solo questioni - il cambiamento climatico, la transizione energetica, i flussi migratori, le relazioni tra mercati, l'intelligenza artificiale, la sicurezza - che tutte richiedono risposte globali a cui soltanto un'Europa coesa e unita può concorrere. Esigenza tanto più evidente in uno scenario internazionale in cui l'Unione europea, dopo 80 anni di pace, è per la prima volta insidiata dalla guerra alle sue porte.
Risulta così evidente quanto dal voto di 400 milioni di cittadini europei dipenda il futuro dell'Europa.
Non è mai stato così nelle precedenti tornate elettorali europee, quando tutte le forze politiche-di centro, sinistra o destra-pur con sfumature diverse si dichiaravano europeiste o comunque non antieuropee. E il passaggio elettorale europeo diveniva in ogni Paese una sorta di elezione di medio termine per misurare sul piano interno i rapporti di forza tra i partiti.
Questa volta non sarà così. Per la prima volta gli elettori saranno di fronte a due opzioni alternative: proseguire sulla strada della integrazione, accelerandone la implementazione in ogni settore per dare all'Europa la forza economica e politica per essere un protagonista del mondo globale; oppure destrutturare l'architettura europea costruita dal '57 ad oggi, ripiegando su un'Europa somma di nazioni blindate nei loro confini. Una prospettiva quest'ultima proposta in ogni Paese da forze politiche neonazionaliste e antieuropee cavalcando le molte insicurezze e paure che corrono sotto la pelle delle società europee.
Veniamo infatti da un quindicennio di criticità - la crisi economica 2008/2015, anni di Covid e da ultimo le guerre alle porte di casa - che hanno suscitato in vasta parte dei cittadini sentimenti di incertezza e la percezione di perder il controllo della propria vita e del proprio futuro. E chi ha paura è portato naturalmente a ripiegare in un atteggiamento difensivo. Ed è su questo che scommettono le forze antieuropee indicando l'Unione europea come responsabile di ogni criticità e rappresentandola come un peso, un vincolo, un costo di cui liberarsi.
Una rappresentazione in realtà falsa: è una pericolosa illusione far credere che se l'Italia alza muri, blinda i suoi confini, si fa più piccola, si allontana dall'Europa, difenderà meglio i suoi interessi. In un mondo grande, se ti fai più piccolo, sarai solo più debole.
Nel mondo globale c'è bisogno di molta più Europa, mettendo a fattor comune il suo potenziale economico, produttivo, tecnologico, sociale per essere nelle condizioni di competere con colossi quali la Cina, l'India, gli Stati Uniti e tanti paesi emergenti del mondo globale. Basterebbe pensare a come l'Unione europea, di fronte alle pesanti conseguenze sanitarie e economiche del Covid, ha messo in campo il Next Generation EU, uno straordinario impegno finanziario per rimettere in moto investimenti, realizzare opere e servizi, creare lavoro. Un impegno di cui l'Italia è stata il principale beneficiario con erogazioni per 400 milioni di euro (metà dei quali a dono).
Non è la scelta che propone la destra italiana. Fratelli d'Italia chiede un voto per "un'Italia che cambi l'Europa" in cui quel "cambi" in realtà significa destrutturare l'edificio europeo. E la Lega chiede un voto per "più Italia, meno Europa" a conferma della deriva nazionalpopulista imbracciata da Salvini.
Sta dunque sulle spalle delle forze europeiste - in primo luogo del PSE e del PD - il compito di contrastare la deriva antieuropea e rilanciare - anche con riforme coraggiose dell'architettura europea - un progetto di integrazione europea capace di restituire ai cittadini quelle certezze che a troppi in questi anni sono apparse smarrite.
 

Piero Fassino
25 maggio 2024